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La cura infinita – di Nicoletta Postal

Vi chiederete perché ho voluto intitolare la mia presentazione “la cura infinita”. Perché “cura” è la parola che ritrovo in tanti passaggi della mia vita. Dal mio bisogno di cura ho avuto modo di imparare e di amare la cura di mia madre, e di apprezzarne la bellezza, tanto dall’andare a scegliere una professione di cura, come l’infermiera, tanto dal sentire, poi,  il desiderio di curare chi voleva diventare infermiere e operatore socio sanitario, diventando una tutor, e infine, tanto da portarmi a curare chi cura, nel ruolo di caposala.

In questi anni, accanto al bisogno di curare, era sempre forte in me il bisogno di essere preparata per poter svolgere al meglio la mia professione, perché pazienti e collaboratori meritavano e meritano conoscenza e competenza. E ancora oggi, il bisogno di competenza mi fa stare sui banchi di scuola per imparare ad ascoltare, e provare a trasformare le parole in parole di cura.

La politica come “cura”

Vi chiederete ora cosa accomuna la cura con la politica. Ebbene, leggendo di politica e studiandola un po’, mi ha colpito leggere l’associazione fatta da Chiara Lubich, che è arrivata a definire la politica “amore degli amori”, anticipando filosofe della cura importanti, come Mortari e Pulcini. Il compito dell’amore politico è quello di creare e custodire le condizioni che permettono a tutti gli altri amori di fiorire: l’amore dei giovani che vogliono vivere insieme e hanno bisogno di una casa, l’amore di chi vuole studiare e ha bisogno di scuole, libri, docenti preparati e non precari, l’amore di chi si dedica alla propria azienda e ha bisogno di infrastrutture, di regole certe, di semplificazioni e meno burocrazia. La politica, quindi, fa in modo che le persone collaborino tra loro, facendo incontrare i bisogni con le risorse e infondendo fiducia con la presenza e il supporto. L’immagine che ne esce è molto bella: quella di uno stelo che alimenta e nutre il continuo sbocciare dei petali della comunità.

Mi soffermo a riflettere con voi sul sistema sanitario e welfare, che mi vede operatrice da lunga data

La recente pandemia ha fatto emergere l’importanza di chi si prende cura dell’altro. L’infermiere, come tutti gli altri ruoli sanitari, ha saputo gestire tutto l’universo emozionale proprio e altrui, garantendo la sua presenza, e mettendo a disposizione la sua competenza e la sua esperienza, nell’incertezza di una situazione sanitaria non conosciuta e non sicura. Ed è proprio questa competenza, questo senso di responsabilità, che sono stati in quel momento ripagati dalla comunità, che ci curava con attenzione e supporto come una madre fa con i propri figli. Ma, questa attenzione e riconoscimento valoriale non possono essere dati solo in  un momento di difficoltà socio-sanitaria. Il personale sanitario merita cura, considerazione,  modelli organizzativi innovativi coerenti con la nuova generazione infermieristica, rispettosi della conciliazione vita-lavor.  Fondamentale diventa seguire il personale sanitario con empatia, capacità di ascolto e parole “medicinali”, essendo molti di questi professionisti sotto stress per le situazioni di sofferenza che quotidianamente possono incontrare.

La recente pandemia ci ha, inoltre, consapevolizzati della fragilità di un sistema socio-sanitario-economico, che si considerava solido e ben strutturato, impossibile da fermare. Invece, ha fatto comprendere tutta la necessità di pensare in senso comunitario, per un bene comune: la tua salute diventa la mia salute; ha fatto emergere il bisogno della cultura della cura, che richiede cure primarie accessibili a tutti.

Prima della prevenzione delle malattie va salvaguardata e mantenuta la salute. È normale equiparare la salute all’assistenza sanitaria. Se proviamo a chiedere a qualcuno cosa pensa della salute, ci potrebbe parlare della sua ultima esperienza in ospedale, o della difficoltà di trovare un medico nel fine settimana, o negli orari di chiusura degli ambulatori, dell’ultima lunga attesa nel pronto soccorso. Nessuno o pochissimi parlerebbero della propria obesità o sovrappeso, del fumo o dell’alcool, o di una dieta povera di frutta e verdura, o della mancanza di reti sociali e relazioni, o della mancanza di esercizio fisico o infine dello stress lavorativo, a cui non prestano la dovuta attenzione, e che indebolisce il sistema immunitario. Pochissimi, insomma, parlerebbero e ammetterebbero stili di vita sbagliati, o assocerebbero deprivazioni sociali al rischio di malattia.

In Europa gli indicatori di deprivazione sono l’impossibilità di pagare un affitto, l’impossibilità di scaldare la casa, di sostenere spese impreviste, di mangiare carne e pesce o un equivalente proteico almeno ogni 2 giorni. I dati mostrano chiaramente che, tra gli europei, a un maggior livello di deprivazione corrisponde un peggior livello di salute.

Accanto alla deprivazione materiale, anche il livello di istruzione è una buona misura di empowerment dell’individuo. Questi due fattori agiscono in maniera indipendente  nel definire lo stato di salute di un individuo. (Marmot, La salute diseguale 2016)

Uno scarso livello di istruzione, povertà, disoccupazione e lavori precari influiscono negativamente sulla salute e sono correlati al rischio di insorgenza di molte malattie. (Dati Censis 2020)

E’ innegabile che la responsabilità degli individui e delle comunità sia centrale per migliorare la propria salute e il proprio benessere, al pari della responsabilità politica di garantire l’accesso alle cure a tutti in modo appropriato e giusto.

Questo ci porta a suggerire tre approcci per promuovere comportamenti salutari: il primo favorire la scolarità al massimo, il secondo fare cultura sulle scelte salutari attraverso programmi educativi, iniziando nelle scuole e continuando negli ambienti di lavoro e nei distretti, in attesa delle tanto desiderate case della salute, il terzo rendere accessibili e incentivare tali scelte salutari.

Mi viene un esempio molto pratico riguardo all’infertilità, problema di cui oggi si parla moltissimo e che crea grande sofferenza fisica ed emotiva nelle nostre coppie. Uno dei cambiamenti sociali che stiamo vivendo è la tendenza della donna a non mettere più il figlio fra i suoi primi obiettivi, ma la ricerca di un lavoro stabile, di una casa, della realizzazione di sè stessa, perdendo di vista l’orologio biologico. Quando, poi, la donna desidera la maternità, questa diventa più difficile a causa dell’età biologica avanzata. Nei programmi di educazione all’affettività nelle scuole si parla molto di contraccezione, di come evitare l’interruzione volontaria di gravidanza, ma non si parla, o forse poco, di limite dell’età biologica della donna, del rischio d’infertilità, di procreazione responsabile e di sessualità.

Oggi la salute non è più intesa come assenza di malattia, ma come stato di benessere complessivo della persona nel suo contesto socio-ecologico, quindi diventa strategico agire sulla realizzazione delle persone, sulla soddisfazione dei bisogni e sulla cura dell’ambiente circostante. Questo programma deve essere l’obiettivo della prevenzione con interventi di promozione della salute basati sul fornire le informazioni per aumentare le conoscenze; con interventi di screening; e infine con interventi terapeutico-riabilitativi, per far sì che la malattia possa incidere il meno possibile sull’equilibrio psico-fisico

Quando parliamo di malattia, non possiamo non scorgere, almeno negli ultimi anni, una immagine di solitudine del paziente, soprattutto quando le malattie sono cronico-degenerative e incidono in modo rilevante sull’autosufficienza del paziente e sull’organizzazione familiare.

Una medicina particolarmente specialistica, se da un lato ci ha consentito di allungare la sopravvivenza, dall’altra ha parcellizzato la cura del paziente. Si cura l’organo, la parte del corpo compromessa, ma non la persona nel suo insieme. Assistiamo quotidianamente ai “giri della speranza” di molti cittadini, che passano da uno specialista all’altro, sperando in una diagnosi, non sempre individuata, e in una cura non sempre risolutiva del problema. In mano una marea di referti, che nessuno poi ha il tempo di collegare. Dire che la malattia è nella persona, e non solo nell’organo, significa che la persona va conosciuta nella sua interezza, va ascoltata, perché le narrazioni dei pazienti, talvolta riescono ad orientare verso la diagnosi. Gli esami strumentali, poi , possono confermare l’ipotesi della narrazione. Ecco che spazi di ascolto strutturati e gestiti da operatori preparati al dialogo potrebbero aiutare a individuare per tempo e a rendere la nostra medicina meno prestazionale e più personalizzata al paziente. La medicina territoriale si è allontanata troppo da questa modalità di presa in carico e di cura, e quando ci si allontana troppo dai valori insiti si perde la propria identità.

Se la malattia coinvolge la persona nel suo insieme, va di pari passo il bisogno che la cura sia multiprofessionale e soprattutto integrata nelle varie figure sanitarie. Nessun operatore sanitario può considerarsi esclusivo nel gestire situazioni, oramai, di elevata complessità. E non sono solo le risorse umane a doversi integrare, ma le stesse strutture, ospedali, ambulatori di medicina territoriale, strutture riabilitative, case di riposo, consultori, servizi alla persona, strutture di lungo degenza, al fine di dare quella continuità assistenziale che tolga la solitudine al vissuto di malattia del paziente e della sua famiglia, di consentire un miglior utilizzo delle strutture sanitarie, soprattutto dell’ospedale, diventato il centro sanitario più utilizzato per qualsiasi problema, e di gestire al meglio la complessità assistenziale. Pubblico e privato devono unirsi nella cura non con competizione, ma per gestire al meglio i bisogni sanitari della comunità. Probabilmente, se in sanità non si parlasse di posti letto, ma di posti di cura, il senso di qualsiasi discorso in merito cambierebbe nella sostanza e nel significato.

Purtroppo, anche il nostro Paese è caratterizzato da significative disuguaglianze di salute tra i diversi gruppi sociali e a livello territoriale. L’effetto di queste differenze si manifesta sull’aspettativa di vita, sui livelli di mortalità e sulla cronicità. La crisi sanitaria dovuta al COVID-19 ha richiamato l’attenzione su queste differenze, destando preoccupazione rispetto alla possibilità che gli svantaggi di salute dei gruppi di popolazione più vulnerabili, già molto significativi, possano acuirsi ulteriormente. Nel marzo 2020 e, in particolare, nelle aree ad alta diffusione dell’epidemia, oltre a un generalizzato aumento della mortalità totale, si sono osservati maggiori incrementi dei tassi di mortalità, in termini tanto di variazione assoluta quanto relativa, nelle fasce di popolazione più svantaggiate, quelle che già sperimentavano, anche prima della epidemia, i livelli di mortalità più elevati.(Censis, 2020)

L’epidemia COVID-19 ha dunque acuito le diseguaglianze preesistenti, con un maggiore impatto sulle persone con basso titolo di studio, non necessariamente anziane.

Vorrei concludere il mio pensiero con gli anziani. Nei miei anni di infermiera e di caposala l’anziano è il paziente che più mi ha ringraziato per la mia cura. È  il paziente più indifeso, quello più da proteggere, da ascoltare. La dimissione di un paziente anziano è difficile e passa per trasferimenti in lungodegenze, nell’attesa della disponibilità della casa di riposo, o di una riorganizzazione domiciliare. Nella gestione della dimissione, l’avere o meno una rete familiare o amicale può essere determinante più dell’età e della complessità del paziente.

Che riflessioni possiamo dedurre da questa osservazione: che bisogna ridurre la solitudine dell’anziano favorendo l’apertura e il mantenimento dei centri per anziani; che se è vero, come dice lo psichiatra Andreolli, che la terza età inizia con la fine dell’operatività, questa va incentivata, pensando a come l’anziano potrebbe essere utile in una società che non riesce più ad aiutare le famiglie.

Un ultima riflessione va all’assistenza sanitaria degli anziani. Mi piacerebbe pensare che l’anziano fosse curato secondo i principi di slow medicine: che non significa una medicina leggera nel senso di superficiale, ma sobria, appropriata, personalizzata. Una medicina condivisa con il paziente, se possibile, e la famiglia, che non si ostina nell’accanimento terapeutico, ma nel dare la giusta cura nel giusto momento di vita, nel giusto modo . Questa è l’appropriatezza che raggiunge la qualità assistenziale e l’utilizzo corretto delle risorse. A tal fine non è solo il personale sanitario che va educato, ma anche la famiglia del paziente anziano.

In Thailandia si parla di “triangolo che sposta le montagne”, quando si decide come affrontare un problema. I vertici del triangolo sono: la conoscenza, il governo, e le persone. Far lavorare i tre soggetti insieme può far spostare le montagne.

I problemi sono oramai conosciuti, le idee per gestirli pure, alle persone il coraggio di spostare le montagne.